«Albanesi brava gente». L’Olocausto degli Europei: dentro e fuori al castello della civiltà

Ogni epoca necessita di sue interpretazioni del passato. La nostra ha bisogno di trovare elementi di fratellanza religiosa. Ecco la Besa, il codice d’onore che avrebbe portato albanesi e musulmani a salvare gli ebrei durante la Shoah. Così è presentata, in una (bella) mostra fotografica di qualche anno fa, la straordinaria storia della «salvezza» degli ebrei in Albania. Ma questa storia della «protezione» (più corretto come usa dire Kadare) degli ebrei in Albania è spesso raccontata male, in modo tendenzioso e funzionale alle esigenze dell’oggi, ridimensionando il suo straordinario valore civile.

Difatti è sovente presentata in maniera tale che da una parte serva a dare più risalto all’operato dei musulmani ma, dall’altra, in modo incomprensibile e semplicistico, la si riconduce alla Besa, il codice consuetudinario delle montagne albanesi con la sua concezione sacrale dell’ospitalità. Ma perché questa distinzione? Fu un fenomeno circoscritto ai soli musulmani? Fu solo la conseguenza del codice consuetudinario albanese del Kanun?

In verità si tratta di un fenomeno che riguardò tutti gli albanesi e la loro cultura nazionale e per di più coinvolse soprattutto la cittadinanza urbana. Per lo storico Shaban Sinani nel suo studio Hebrenjtë në shqipëri: prania dhe shpëtimi – e ci vuole del coraggio intellettuale a sostenerlo – fu una conseguenza di un tratto esclusivo del genotipo culturale albanese, ovvero la sua capacità di accettazione dell’altro. Lo storico Michele Sarfatti, nel suo Gli ebrei in Albania sotto il fascismo. Una storia da ricostruire , lo ha definito «la più grande dimostrazione di civiltà e umanità di un paese durante la Seconda Guerra Mondiale». E lo storico italiano si chiede: perché l’Albania? Perché gli albanesi riuscirono dove l’intera Europa fallì?

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Le dimensioni di tale gesto sono straordinarie: in Albania sono stati accolti e salvati

ebrei provenienti, anche e soprattutto dall’estero, per un numero dieci volte maggiore rispetto agli ebrei presenti in patria prima della guerra, i quali si aggiravano intorno ai 280/300 circa. Gli storici albanesi più autorevoli parlano di più di 2800 ebrei salvati.

Una storia di convivenza e di rispetto
In verità, in Albania non si era mai constatata la presenza dell’antisemitismo o di altri comportamenti discriminatori su base religiosa. Dal loro arrivo dopo la cacciata di Spagna è esistita un’idilliaca convivenza tanto da registrare, in epoca moderna, nella città di Valona (dove nel ‘500 è esistita una comunità che raggiungeva quasi 1/3 dei «focolari» in città) persino delle conversioni spontanee di ebrei all’Islam, così come stava avvenendo nel popolo albanese sotto l’Impero Ottomano a iniziare dalla fine del ‘400. Tra il 1933 e il 1934 – gli anni della presa di potere nazista in Germania – tale assenza di antisemitismo in Albania non era sfuggito alla Diaspora ebraica tanto che l’ambasciatore americano a Tirana H. Bernstein cercava un accordo con Zog (il re albanese) per permettere lo stanziamento nel Nord-Est del paese di 500 famiglie ebree del Centro e dell’Est Europa. L’ambasciatore riferiva che l’Albania era forse l’unico paese dove era sconosciuto l’antisemitismo, e secondo lo storico albanese Sinani la comunità ebraica americana considerava l’Albania come «patria riserva» per gli ebrei europei. Così, ancor prima dell’inizio della II Guerra Mondiale il numero degli ebrei era salito già a 800. Nemmeno gli avvenimenti successivi, infatti, smentiranno questa percezione. La tendenza della convivenza e della libertà garantita continuerà anche dopo l’Occupazione italiana. Nonostante le pressioni di Roma gli ebrei continuavano a trovare appoggio da parte delle autorità albanesi. Tirana si rifiutava di applicare le Leggi Razziali di Roma e addirittura, nelle parole di Sarfatti, «con grande coraggio non accettò e non ubbidì» alla richiesta intimidatoria di consegnare 400 famiglie di ebrei non albanesi alle autorità fasciste italiane. Il clima nel paese continuava idilliaca per la comunità: ancora nel 1941 il sabato le attività ebraiche chiudevano normalmente e il Shabbat a Valona era festeggiato pubblicamente. Questa realtà si diffondeva e nelle varie ambasciate italiane si moltiplicavano le richieste di visti per l’Albania che venivano concessi con facilità dalle autorità consolari nonostante il governo di Roma chiedesse agli albanesi maggiore controllo e fermezza. Agli ebrei giunti in Albania venivano dati immediatamente documenti falsi e certificati di appartenenza religiosa diversa grazie alla collaborazione di tutte le autorità religiose. Tale organizzazione continuò anche con l’arrivo dei tedeschi. Il governo di Tirana, spesso nella figura di Mehdi Frashëri, si appellava all’accordo con i tedeschi che prevedeva di facilitare loro il passaggio ma al contempo la loro «non ingerenza negli affari interni del paese», al fine di non consegnare le liste degli ebrei. Non solo, erano i tedeschi stessi che, di fronte a una situazione tanto peculiare, non riuscivano a prendere delle contromisure concrete con la consueta fermezza perché tutta la popolazione era attivamente coinvolta nella protezione degli ebrei e quindi non volevano correre il rischio di inimicarsela. Tale situazione ovviamente era diversa dal resto dell’Est Europa. Il governo albanese nonostante fosse retto da uomini nazionalisti e vicini agli ideali nazional-socialisti, si rifiutò ripetutamente di consegnare le liste e addirittura riferì che avrebbe ritenuto ingerenza negli affari interni il loro occuparsi della questione ebraica in territorio albanese. Tutto questo avveniva mentre era comunque in atto la Resistenza partigiana e i tedeschi bruciavano interi villaggi di albanesi. La dimensione di tale eroismo merita di essere ribadita poiché va ricordato che in questo stesso periodo i nazisti riuscirono a sequestrare l’oro della Banca Nazionale Albanese ma non ottennero di vedersi consegnare gli ebrei e nemmeno le loro liste di nominativi in possesso del ministero degli interni. Tale risultato umanitario non sarebbe stato possibile, però, se non ci fosse stato lo stesso punto di vista condiviso sul tema nel mondo politico albanese e nella popolazione civile. Il coraggio politico di un piccolo Stato faceva da bandiera al grande coraggio di centinaia di albanesi che hanno rischiato la vita per salvare delle vite umane e le testimonianze di tutto ciò hanno del meraviglioso. Così, il piccolo paese divenne allora, «da periferia dell’Europa, a centro del mondo», come dice Ana Kohen, ebrea di Valona, la quale raccontava con orgoglio in giro per il mondo di essere diversa rispetto agli altri ebrei scampati dall’Olocausto: lei era albanese, era «la ragazza di Valona», l’unico angolo dove si viveva liberi.

Dentro e fuori al castello della civiltà: grazie Albania!
Michele Sarfatti si chiede «perché l’Albania e gli albanesi?» in modo retorico, sottolineando come uno storico neutrale ed esterno non possa trovare una valida risposta. Effettivamente siamo davanti a un paradosso: da un lato il mondo civile arriva nel paese più arretrato d’Europa con la sua modernità tecnologica, con la sua cultura (spesso malcompresa) fatta di Bach, Nietzsche o Goethe e dice uccidete, massacrate, consegnate; dall’altro invece nel vivere come una volta, con la vita più vicina alla vita, con la tendenza a concepirsi liberi e con pensieri in testa non ancora omologati dalla stalla della pedagogia nazionale, nell’«ignoranza» di una vita semplice e genuina, ci si ribella, si nega alla morte la vita e si aiuta, si ospita, si salva. La risposta di Sarfatti si limita ad un «Grazie Albania!», ma alcuni albanesi, tra cui Kadare, si sforzano di trovarla altrove mentre queste gesta continuano ad alimentare il loro meraviglioso mito (il mito non è sempre brutto, come sostiene Bloch): che hanno salvato tutti, che non si sono macchiati di genocidi, che vivono in modo rispettoso (non solo tollerante) la diversità altrui, seppur non si sentono «brava gente», o perlomeno nessuno li ha mai fatti sentire tali.

Quindi risulta strano che gli albanesi di oggi, tendenzialmente privi di una chiara e (per quanto ciò sia impossibile in termini ideali) indipendente visione di sé di cui andare fieri, curiosamente non facciano mai riferimento, nelle loro continue acrobatiche autoesaltanti narrazioni culturali e identitarie, all’unica storia, forse, che potrebbe rendere giustizia al loro sentirsi unici e appagare il loro orgoglio, emancipandoli finalmente dal consueto e forzato richiamo ad un passato fatto di un vestiario identitario odorante di naftalina o di immagini copiate dal consumismo post-moderno. Dunque, c’è stato nella storia degli albanesi, questo straordinario contributo alla civiltà europea, un momento di trionfo civile, di trionfo umano, sulla stessa Europa civilizzata e umanista, di cui non soltanto andare fieri, ma da rievocare al fine di perpetuare quel vecchio moto concepito altrove, in questo caso riadattato e mai tanto calzante: «albanesi brava gente». La seconda Guerra Mondiale con il suo sotterraneo fiume di odio, con la sua necessità di annichilimento dell’Altro, per di più sconosciuto, portò un terreno nuovo su cui misurarsi e scontrarsi da un punto di vista culturale ed umano, anche nei termini dell’estremismo peculiare di alcune delle nazioni egemoni coinvolte nel conflitto.

Per una volta, le posizioni rappresentate dall’Europa e dall’ ‘Albanesità’, secondo la stessa gerarchia dettata dalla Weltanschauung umanista e civilizzata, si sono invertite e, per la prima volta, quelle forme tribali arretrate dei “barbari albanesi”, odiate e viste come forme estremamente primitive di diritto consuetudinario, hanno trionfato sulla civiltà statale e civilizzatrice (nelle sue forme presuntuose e didattiche) dell’Europa. I concetti e le tradizioni prodotte da una millenaria cultura riguardanti l’Altro, la diversità e la religiosità, hanno mostrato il valore umano e di civiltà alla modernità tecnico-industriale europea.

«Orgoglio da brava gente»
Ora, meno di un secolo dopo, gli intellettuali, gli storici e filosofi di oggi si riempiono la bocca di parole che appaiono sterili, spesso apparentemente svuotate di significato rispetto al passato tremendo che le ha partorite, come uguaglianza, tolleranza religiosa e rispetto delle minoranze. A quel tempo, nel deserto umano che circondava la vita degli ebrei, gli albanesi risposero alla chiamata. Gli albanesi erano davvero «brava gente», i giusti fra i popoli. E uno si capacita della dimensione di tale gesto e di questa straordinaria virtù la prima volta che si entra allo Yad Vashem, il museo della Memoria della Shoah di Gerusalemme. È lì che essere «albanese» e discendere da questa gente assume un significato nuovo, nel suo accedere ad una dimensione più profonda dell’orgoglio di ognuno e, per una volta, anche di quello nazionale nella sua accezione più nobile.

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